venerdì 25 aprile 2014

All' Hôtel de Rambouillet...recensione di "Born to Run" di Cristopher McDougall


TITOLO: BORN TO RUN
AUTORE: CHRISTOPHER MCDOUGALL
Traduzione italiana di:  Dario Ferrari
CASA EDITRICE: MONDADORI, Collezione Strade blu, I edizione febbraio 2014
PREZZO. € 17,50


E’ sufficiente leggere poche pagine di questo libro per capire il motivo per il quale ha riscosso tanto successo e per ipotizzare, con una certa probabilità, che ora che è disponibile anche la traduzione italiana, diventerà un classico immancabile sulle librerie dei runners connazionali.
Io non mi sono discostato dalla media, ho amato questo libro e l’ho divorato in tre giorni.
Il motivo è alquanto banale e la ricetta del successo presto svelata.
Cosa c’è di più coinvolgente per un amante della corsa, del sentirsi dire che è nato proprio per correre?
In questo libro non solo si sostiene la nostra scelta di infilarci pantaloncini e scarpe da ginnastica, ma la si reputa come la scelta più logica e sensata che l’uomo possa prendere, dal momento che decide di fare ciò per cui si è evoluto per fare. La civetta vola, il serpente striscia, il gallo fa chicchirichì e l’uomo corre. Se ciò non bastasse, vi si dice pure che chiunque di noi, non solo è in grado di correre per tutta la vita senza traumi, ma è pure in grado di farlo per distanze che considereremmo lunghe perfino in macchina.
Ma andiamo con ordine. Mi ero ripromesso di comportarmi con questo libro nel modo più diffidente possibile. Ho letto di gente che dal mattino alla sera è passata dall’essere un noioso impiegato a credersi un orgoglioso pellerossa delle terre selvagge, ed infine finire mesto mesto nella sala di aspetto di qualche ortopedico.
In realtà, vi devo confessare che la scorsa notte ho sognato di correre veloce e libero, senza alcuno sforzo per km e km, ho sognato un moto perpetuo che scaturiva solo dalle mie gambe. Verrebbe da dire, è proprio un sogno, ma è anche la dimostrazione di quanto questo libro mi abbia affascinato oppure di quanto sia psicolabile.
Tuttavia, il mio giudizio non è uniforme, seppure questa lettura mi ha spesso fatto sognare, mi ha esaltato e mi ha fatto pensare, talvolta mi ha anche indispettito, ma ne parlerò dopo.
Il libro ha come vero protagonista il popolo Tarahumara, o più propriamente i Raràmuri, il popolo che corre, attorno al loro mito e al tentativo di un "gringo indiano" (Micah True, alias Caballo Blanco)  di organizzare una corsa tra i primi e i più forti ultramaratoneti americani, l’autore conduce la sua ricerca, ossia:  la corsa è una disciplina sportiva forzata, inadatta o addirittura nemica dell’uomo, oppure è un tecnica naturale di propulsione? A sostegno della prima ipotesi ci sono i milioni di corridori infortunati, fortuna di fisioterapisti e osteopati, a sostegno della seconda ipotesi ci sono i Raramuri e alcuni dei popoli più antichi del pianeta, oltre ad alcune leggende dello sport e dell’atletica moderna. McDougall è un amante della corsa e collaboratore di alcune riviste specialistiche, ma dopo continui e costanti infortuni e successivamente essere stato visitato dai più grandi luminari, al posto di gettare la spugna ha voluto trovare una risposta alle sue domande. Fu questa ricerca a metterlo sulle tracce degli schivi Tarahumara e fu “Caballo Blanco” a guidarlo tra i canyon, les barrancas, dove questo popolo aveva trovato il suo ultimo rifugio dalla cattiveria del mondo.
Micah-True (10.11.953 – 27.03.2012)

I Tarahumara sono un popolo timido, pacifico e colorato che ha, come altri popoli indiani, una propensione naturale per la corsa. Corrono per spostarsi, corrono per trovare di che sfamarsi, ma soprattutto corrono per divertirsi. La corsa di resistenza è il collante sociale tra i piccolissimi villaggi sparsi tra i canyon. La particolarità dei Tarahumara sta però nell’essere in grado di correre per centinaia di chilometri con rudimentali sandali ricavati da copertoni usati, senza avere mai infortuni.
Sandali Tarahumara

Messico - Copper Canyon

 Come ci riescono? I motivi sono diversi. Una dieta povera di grassi, zuccheri e carne, un fisico reso atletico dalle necessità imposte da un ambiente duro e pericoloso come le Barrancas, una tecnica di corsa ottimale e naturale, proprio grazie al fatto di correre praticamente a piedi nudi. I muscoli dei piedi dei Tarahumara non vengono atrofizzati dalle spesse scarpe del mondo “civilizzato”. Tutto ciò permette loro di correre come correvano i loro antenati primitivi (praticando lacaccia per sfinimento) e quindi nel mondo in cui l’uomo si è evoluto a tale scopo.


Concludendo, per l’uomo correre a lungo è  naturalmente normale, se non ci riusciamo è colpa della Nike o nostra, poiché ci siamo dimenticati o ci hanno fatto dimenticare la giusta tecnica.
Non mi voglio dilungare troppo su questo argomento, dal momento che l’argomento barefoot o tecniche affini come il chi-running sono argomenti caldi tra i runners e vi è abbondanza di letteratura.
Come dicevo, alcune cose in questo libro, non mi sono piaciute.
 Anzitutto, se dagli anni 60’, la scarpa da corsa ha avuto un certo percorso evolutivo, questo credo sia dovuto ad un certo tipo di domanda del mercato, oltre che a sincere ma errate convinzioni, e non solo a causa dell’egoistico imperialismo di alcuni brand.
In secondo luogo, ad un certo punto del libro, una ultramaratoneta protagonista, tale Jenn Shelton, alla domanda di McDougall “Ma perché non le maratone?”, rispose “ non scherziamo zio, lo standard richiesto per qualificarsi (alle Olimpiadi) è 2 ore e 48 minuti. Chiunque può farlo”.  Per la cronaca questa atleta, negli ultimi anni si è avvicinata alle prove “più brevi” e nel 2012 ha pure partecipato ai trials di maratona per qualificarsi per le olimpiadi, senza chiaramente riuscirci.
Ho preso ad esempio questo tratto per criticare una certa superbia e spacconeria che dimostrano di avere certi personaggi del libro. Cavoli, mi son detto un po’ di rispetto per tutte quelle atlete che hanno sputato sangue nel tentare di raggiungere il sogno olimpico. Lo sport agonistico, come attività umana, è in perenne divenire, ma è ingiusto e da ignoranti sbeffeggiare le tradizioni o voler prendere le distanze da chi ha costruito il gradino da cui si parte per realizzare quello successivo.
Rimangono aperte alcune domande, tra cui: ma se correre praticamente a piedi scalzi apporta così tanti vantaggi , come mai i più grandi maratoneti attuali non lo fanno? Si tenga pure in conto che ormai tutti i grandi brand propongono scarpe minimal, quindi il discorso "sponsorizzazione" non regge.
In rete si può leggere tutto ed il contrario di tutto, le critiche verso lo slogan "nati per correre" si sprecano e spesso le prove a sostegno sono convincenti per entrambi gli schieramenti.
Per cui, non voglio entrare nel merito, rischierei di dire solo sciocchezze, per il momento mi stabilizzo a metà strada tra i due estremi.

In medio stat virtus.

martedì 15 aprile 2014

Corricchietta alle cime di rapa






Dopo che la grande fatica intellettuale per trovare il titolo mi ha prosciugato ogni energia, il post  potrebbe anche chiudersi qua, tuttavia farò uno sforzo estremo.
Quando iniziai a correre pensai che questo sport potesse rivelarsi un utile strumento per visitare i luoghi in un modo un po' diverso dal solito, un modo alternativo per fare un tour veloce di una cittadina, di un centro storico o di un quartiere. Certo, non si può pretendere una visita approfondita ed accurata, non si è completamente concentrati, si ha comunque il fiato corto, non si riesce a soffermarsi sulle cose, ma si possono comunque vivere emozioni interessanti e belle sensazioni, a maggior ragione se non si ha molto tempo a disposizione.
Non mi capita spesso di uscire dalla mia tana, ma lo scorso fine settimana un impegno mi ha portato a Bari.
In Puglia c'ero già stato, vi avevo corso un paio di volte in bici, ma ero sempre stato in piccoli paesini, era la prima volta che entravo a Bari. Preparando il viaggio, cercando hotel e informazioni varie, la prima cosa che mi aveva colpito era stata la struttura della città.
La città ha due volti, da una parte, su una piccola penisola, si nota distintamente l'antico e primogenito nucleo urbano (Bari Vecchia), fatto di dedali e viuzze; dall'altra le fa da contraltare il quartiere ottocentesco con la sua ordinata pianta a scacchiera, voluto dal quel particolare personaggio che fu Gioacchino Murat.   
Arrivato in albergo verso le tre e mezza di pomeriggio, mi rimaneva meno di mezza giornata per godere della città. Così, dopo aver visto la conclusione della Parigi-Roubaix (prescrizione del medico), mi infilo calzoncini e scarpe e senza troppo indugiare parto tutto azzoppato, ma con l'aria di mare che fa dimenticare tutti i mali. Non guardo l'orologio, dirigo i miei i passi verso il lungomare (per chi viene dalla collina il mare è sempre una novità), poi verso il centro storico, a casaccio, seguo una indicazione e sbuco davanti alla Basilica di S. Nicola, poi entro in un dedalo di vie rese scivolose dalla pioggia appena caduta, mi perdo e mi trovo davanti al castello Svevo, mi riperdo e mi ritrovo.
E' ridicolo esprimere una opinione su una città , dopo averla appena intravista, eppure mi ha affascinato. E' una città del sud, e questo lo si vede ma sopratutto lo si sente, una città tra Europa e Medio Oriente, una città contesa tra longobardi e bizantini, si può dire che fu l'ultimo avamposto europeo del discendente dell' Impero Romano, Bisanzio, e dal suo porto partirono i cavalieri crociati in missione verso la Terra Santa.
 Non è retorica, sono passati mille anni, ma davvero si respira ancora quella stessa aria, o per lo meno a me così è parso.
Basilica di S.Nicola

Di questa città mi rimarrà per sempre impressa questa immagine, io e mio padre che ceniamo in un ristorantino, all'aperto, in una Piazza Mercantile affollata e gioiosa, da parte a noi, separati dal recinto di vetro del locale, due signori anziani giocano a carte, altri quattro ne osservano le mosse, tre ragazzini su un'unica bici passano zigzagando tra la folla fischiando alle ragazze, nell'aria si diffondono i canti della processione della Domenica Delle Palme.

Ecco, per me, Bari è questa, o così mi è parso di averla intravista
Palazzo Mincuzzi


domenica 6 aprile 2014

Sensei Balboa, ho molto da imparare




Mi sento come disperso nel deserto, solo in mezzo all'infinito, ogni direzione sembra portare fisicamente al nulla, conduce solo allo sfinimento fisico e alla rassegnazione dell'animo  Sulle dune si riaffacciano, ringalluzziti, i fantasmi mai completamente sconfitti, pronti ad assalirmi come avvoltoi. Ogni passo sembra servire solo a perdermi ancor di più
Stanco, senza una meta visibile all'orizzonte, mi siedo, le braccia abbracciano le ginocchia e la testa è china sopra di esse. Le lacrime solcano il viso e arrivano salate alle labbra.
La mia disperazione cade però inascoltata, l'autocommiserazione produce solo l'accettazione della rassegnazione. No, non accetto il ruolo di vittima.
Mi rialzo, procedo, tiro un calcio alla sabbia e vado avanti; verso dove, lo spero e lo immagino solo nella mia mente, non corro più, cammino, ma mi muovo ancora. Non sono ben consapevole del perché, ne so fin quando questa inerzia continuerà, ma mi sto muovendo. Al domani qualsiasi valutazione filosofica, per ora mi accontento di trascinarmi.

Questa settimana: solo 17 km di corsa, 3 uscite in bici e una seduta di fisioterapia. Non serve commentare
Al momento le probabilità di partecipare alla Piacenza Half Marathon sono risicate. Mi sento, francamente, perseguitato dalla sfortuna, dopo la contrattura al bicipite femorale destro, mi è accaduto un infortunio identico alla gamba sinistra; il tutto contornato e supportato da altri fastidi, lieve infiammazione del tendine di Achille, affaticamento degli adduttori. Al momento penso che si sia rotto un equilibrio e il mio corpo sia andato un po' in tilt. La bici mi sta dando una grossa mano nel mantenimento dell'efficienza aerobica, ma è comunque un ripiego.
L'uomo non può mai essere in possesso del proprio destino, al momento l'unica cosa che posso fare è, riportando la metafora di prima, continuare a muovermi e non cedere alla rassegnazione.

Il mio maestro Rocky sa sempre toccare le giuste corde:


Grazie Sensei.
Grazie a voi di aver letto le mie lagnanze
e buona settimana a tutti.