Elia se ci sei batti un colpo, ed io modestamente un colpo
l'ho battuto.
Domenica scorsa alla Maratonina Città di Crema sono riuscito
ad abbassare il mio personale ed ho fermato il cronometro in 1h16:35. Mi rendo
conto del relativismo insito nei risultati nell'atletica ma per me questo è un
ottimo risultato date le premesse, ossia 2 mesi di stop, 4 di calvario e
finalmente un ultimo mese di allenamenti senza più problemi ne dolori. Con una
sola gara nelle gambe (una staffetta a coppie la settimana prima) e pochi
lunghi, fare meglio per me era difficile.
Nei mesi precedenti avevo pensato seriamente di smettere, a
parte gli infortuni senza tregua mi pareva di non riuscire più a recuperare
fisicamente, qualsiasi corsa, anche la più tranquilla, mi segnava pesantemente
le gambe e anche solo camminando provavo forti dolori. Correre era diventato
solo fatica, male fisico e frustrazione. Costretto sempre a saltare gare e
allenamenti in compagnia.
"Elia ci sei domani a Pinco? Ehm no, grazie"
"La fai la mezza di Pallo? Emh, no mi spiace"
"Dai, domani ci troviamo? No, se volete porto
l'acqua".
Ho provato a
resettare tutto, mi sono rivolto ad un medico dello sport e nutrizionista e da
allora le cose, per caso o per merito, sono cambiate radicalmente.
Questo punto, spero rappresenti per me un nuovo inizio. Finalmente
ho ritrovato il piacere di correre, finalmente uscire al buio e al freddo è
diventato un po' meno pesante e sto sperando di riuscire anche a pianificare
qualcosa.
Ritornando alla gara, sono partito volutamente forte.
L'avevo scritto nel precedente post che volevo correre alla keniana (si fa per
dire); e così ho fatto, ho fatto i primi 10km quasi al mio massimo. Nel finale
sono indubbiamente notevolmente calato ma, fortunatamente, non a sufficienza per impedirmi
di infrangere il mio personale.
Titolo: L'arte giapponese di correre
Autore: Adharanand Finn
Casa editrice: Sperling & Kupfer
Edizione: I edizione settembre 2015
Del Sig. Finn avevo letto l'ormai famoso "Nati per
correre", un reportage fatto in Kenya a diretto contatto con i grandi
maratoneti degli altipiani. Lessi quel libro diversi mesi prima di iniziare a
correre a piedi e mi piacque davvero tanto. Ragion per cui ho iniziato questo
libro con grandi aspettative, devo dire però che, almeno fino ad un buon punto,
mi stava deludendo. Mi dicevo "dai Finn inizia a rendere la storia un po'
più interessante", poi però ho capito, non erano le cose scritte dallo
scrittore a non piacermi erano i Giapponesi e la seconda rivelazione era ancora
peggiore, mi rendevo conto di avere atteggiamenti molto simili ai corridori
giapponesi. In sostanza, non mi stavo piacendo.
Un passo alla volta. Come il precedente libro, Finn compie
un reportage trasferendosi per 6 mesi nel Paese del Sol Levante perchè, queste
le sue parole, "Sta succedendo qualcosa in Giappone, e dall'esterno non è
facile accorgersene...nel 2013, l'anno in cui è celebrata la nostra storia,
solo sei dei cento maratoneti più veloci del mondo non erano di origine
africana. Cinque di loro erano giapponesi. Tra le donne, undici atlete su cento
erano giapponesi. Anche in questo caso il Giapponeera al terzo posto, dopo Kenya ed
Etiopia".
Dicevo, il libro mi stava deludendo, perché io mi aspettavo
aneddoti strabilianti, racconti epici ma poco traspariva dall'omertà e dalla
diffidenza insita nei giapponesi ed il racconto di Finn ne soffriva. Anche la
storia dei monaci che correvano mille maratone in mille giorni non era proprio così sensazionale. Anzitutto, corrono anche, ma sopratutto camminano, poi i mille giorni non
devono essere consecutivi, infine si tratta di una pratica di mistificazione
del corpo non molto diversa, per idea, da quelle di alcuni ordini monacali
cristiani.
In Giappone la corsa su strada è lo sport più seguito e
praticato dopo il baseball ed è monopolizzato dalle Ekiden, che sono delle gare
di fondo a staffetta. Il risultato del gruppo è ciò che conta ma per quello il
contributo del singolo è fondamentale. Vi
sono diverse squadre professionistiche sponsorizzate dalle aziende, ma le gare
più famose e sentite sono quelle universitarie perché rimangono, per i
risultati, più aperte alle sorprese. Arrivare al
professionismo è più facile rispetto a molti altri paesi, però l'attenzione
mediatica è concentrata sulle competizioni universitarie, ragion per cui
risultano meno perseguiti obiettivi quali mondiali o Olimpiadi e le discipline
della pista. Difatti, in Giappone c'è un altissimo livello medio, ma pochissimi
atleti affermati a livello internazionale e con personali da primato.
Il prototipo del corridore giapponese è: studente, fondista
che compete esclusivamente su strada, che già a vent'anni ha raggiunto l'apice,
con una certa sicurezza economica, senza particolari aspirazioni a fare quello
di lavoro o a vincere a livello internazionale, si allena tanto e duramente,
spesso troppo, con tanto stress, vede la corsa come impegno serio, come una
prova di disciplina,una dedizione alla pratica, una via che porta alla
perfezione. Un samurai dell'atletica. E il divertimento? No, nessun
divertimento, si lavora, ci si allena, il divertimento non serve. Questa mentalità me ne ricorda un'altra...ah sì la mia. Ma
io non volevo riflettermi in quelli lì, con la loro corsa strascicata, con la
loro mania per l'estremo sacrificio. Io volevo essere come un Giamaicano con il sorriso sulle labbra nel suo impegno massimo, come Keniano che parte e corre
senza tattica come se non temesse di avere limiti fisici. Io desidero anteporre il volere al dovere. Bolt ci insegna che correre accompagnati dal sorriso ha una sua utilità, sia per il benessere interiore sia per i risultati. Dall'approccio che le persone hanno verso lo sport, credo si possa capire molto di loro e, una volta entrato, per quanto possibile da diecimila km di distanza, nella mentalità giapponese, sono riuscito a godermi molto di più il libro. Fin, secondo me, ha dimostrato di essere un ottimo scrittore. Questo libro, non raggiungerà il livello del precedente ma merita sicuramente di essere letto dagli appassionati della corsa