Titolo: L'arte giapponese di correre
Autore: Adharanand Finn
Casa editrice: Sperling & Kupfer
Edizione: I edizione settembre 2015
Del Sig. Finn avevo letto l'ormai famoso "Nati per
correre", un reportage fatto in Kenya a diretto contatto con i grandi
maratoneti degli altipiani. Lessi quel libro diversi mesi prima di iniziare a
correre a piedi e mi piacque davvero tanto. Ragion per cui ho iniziato questo
libro con grandi aspettative, devo dire però che, almeno fino ad un buon punto,
mi stava deludendo. Mi dicevo "dai Finn inizia a rendere la storia un po'
più interessante", poi però ho capito, non erano le cose scritte dallo
scrittore a non piacermi erano i Giapponesi e la seconda rivelazione era ancora
peggiore, mi rendevo conto di avere atteggiamenti molto simili ai corridori
giapponesi. In sostanza, non mi stavo piacendo.
Un passo alla volta. Come il precedente libro, Finn compie
un reportage trasferendosi per 6 mesi nel Paese del Sol Levante perchè, queste
le sue parole, "Sta succedendo qualcosa in Giappone, e dall'esterno non è
facile accorgersene...nel 2013, l'anno in cui è celebrata la nostra storia,
solo sei dei cento maratoneti più veloci del mondo non erano di origine
africana. Cinque di loro erano giapponesi. Tra le donne, undici atlete su cento
erano giapponesi. Anche in questo caso il Giappone era al terzo posto, dopo Kenya ed
Etiopia".
Dicevo, il libro mi stava deludendo, perché io mi aspettavo
aneddoti strabilianti, racconti epici ma poco traspariva dall'omertà e dalla
diffidenza insita nei giapponesi ed il racconto di Finn ne soffriva. Anche la
storia dei monaci che correvano mille maratone in mille giorni non era proprio così sensazionale. Anzitutto, corrono anche, ma sopratutto camminano, poi i mille giorni non
devono essere consecutivi, infine si tratta di una pratica di mistificazione
del corpo non molto diversa, per idea, da quelle di alcuni ordini monacali
cristiani.
In Giappone la corsa su strada è lo sport più seguito e
praticato dopo il baseball ed è monopolizzato dalle Ekiden, che sono delle gare
di fondo a staffetta. Il risultato del gruppo è ciò che conta ma per quello il
contributo del singolo è fondamentale. Vi
sono diverse squadre professionistiche sponsorizzate dalle aziende, ma le gare
più famose e sentite sono quelle universitarie perché rimangono, per i
risultati, più aperte alle sorprese. Arrivare al professionismo è più facile rispetto a molti altri paesi, però l'attenzione mediatica è concentrata sulle competizioni universitarie, ragion per cui risultano meno perseguiti obiettivi quali mondiali o Olimpiadi e le discipline della pista. Difatti, in Giappone c'è un altissimo livello medio, ma pochissimi atleti affermati a livello internazionale e con personali da primato.
Il prototipo del corridore giapponese è: studente, fondista
che compete esclusivamente su strada, che già a vent'anni ha raggiunto l'apice,
con una certa sicurezza economica, senza particolari aspirazioni a fare quello
di lavoro o a vincere a livello internazionale, si allena tanto e duramente,
spesso troppo, con tanto stress, vede la corsa come impegno serio, come una
prova di disciplina,una dedizione alla pratica, una via che porta alla
perfezione. Un samurai dell'atletica. E il divertimento? No, nessun
divertimento, si lavora, ci si allena, il divertimento non serve.
Questa mentalità me ne ricorda un'altra...ah sì la mia. Ma io non volevo riflettermi in quelli lì, con la loro corsa strascicata, con la loro mania per l'estremo sacrificio. Io volevo essere come un Giamaicano con il sorriso sulle labbra nel suo impegno massimo, come Keniano che parte e corre senza tattica come se non temesse di avere limiti fisici. Io desidero anteporre il volere al dovere. Bolt ci insegna che correre accompagnati dal sorriso ha una sua utilità, sia per il benessere interiore sia per i risultati.
Dall'approccio che le persone hanno verso lo sport, credo si possa capire molto di loro e, una volta entrato, per quanto possibile da diecimila km di distanza, nella mentalità giapponese, sono riuscito a godermi molto di più il libro.
Fin, secondo me, ha dimostrato di essere un ottimo scrittore. Questo libro, non raggiungerà il livello del precedente ma merita sicuramente di essere letto dagli appassionati della corsa
Questa mentalità me ne ricorda un'altra...ah sì la mia. Ma io non volevo riflettermi in quelli lì, con la loro corsa strascicata, con la loro mania per l'estremo sacrificio. Io volevo essere come un Giamaicano con il sorriso sulle labbra nel suo impegno massimo, come Keniano che parte e corre senza tattica come se non temesse di avere limiti fisici. Io desidero anteporre il volere al dovere. Bolt ci insegna che correre accompagnati dal sorriso ha una sua utilità, sia per il benessere interiore sia per i risultati.
Dall'approccio che le persone hanno verso lo sport, credo si possa capire molto di loro e, una volta entrato, per quanto possibile da diecimila km di distanza, nella mentalità giapponese, sono riuscito a godermi molto di più il libro.
Fin, secondo me, ha dimostrato di essere un ottimo scrittore. Questo libro, non raggiungerà il livello del precedente ma merita sicuramente di essere letto dagli appassionati della corsa
beh, gli orientali sono culturalmente votati al sacrificio e allo stakanovismo. a me non piace nessuna cultura orientale, tanto che me ne sono scappato all'estremo opposto :)
RispondiEliminacomunque sta tendenza dei giap continua anche nel 2015, anche nei 10000 in pista. ci farò un articolo sul blog.